INDONESIA Intervista a un giovane attivista che ha partecipato alla recente ondata di proteste

Da febbraio l’Indonesia è scossa da un’ondata di proteste di massa, tra le più grandi dalla caduta di Suharto nel 1998. Innescate dall’emergere di ricche prebende concesse ai parlamentari e acuite dall’uccisione del driver Affan Kurniawan da parte della polizia durante una manifestazione, sono dilagate in una mobilitazione nazionale. Lavoratori, studenti, driver e comunità sono scese in piazza contro diseguaglianze, austerità, corruzione e repressione.

DIMEJI MACAULEY, Internationalist Standpoint, 9 settembre 2025

Vuoi presentarti?

Mi chiamo Mia Rosmiati e faccio parte del Sindacato dei lavoratori dei media e dell’industria creativa per la democrazia (SINDIKASI), dove lavoro nella divisione di advocacy politica del Comitato esecutivo nazionale.

Internet e i media stanno dando ampio spazio alle proteste di massa in Indonesia. Cosa ha innescato questa ondata di proteste?

Non è una fiammata improvvisa, ma il prodotto di anni di frustrazione. Mentre lavoratori, studenti, lavoratori delle consegne e famiglie sono soffocati dall’inflazione, dalla stagnazione dei salari e dai licenziamenti, il governo risponde con misure di austerità che privano i cittadini dei servizi di base. Intanto i parlamentari si arricchiscono concedendosi generose prebende come indennità alloggio da decine di milioni di rupie al mese. Questa grottesca ostentazione di privilegi, che stride a confronto con le difficoltà quotidiane di chi riesce a malapena a pagarsi cibo e affitto, è la scintilla che ha infiammato le strade. Il rogo si è ulteriormente propagato dopo l’uccisione di Affan Kurniawan, un fattorino schiacciato dalla macchina della violenza di Stato. La sua morte riflette una profonda ingiustizia sociale e ha trasformato la rabbia in solidarietà. Il suo nome oggi è scritto sugli striscioni, gridato nei cortei e ripetuto online come simbolo di resistenza. Ciò che all’inizio era un’espressione di malcontento oggi è un movimento popolare: gli studenti marciano insieme ai lavoratori, le voci delle città si uniscono a quelle che arrivano dalle campagne, sia i lavoratori delle consegne che i contadini rifiutano di essere messi a tacere. Per noi di SINDIKASI è più di una protesta: è una lotta per la dignità.

Qual è stata la risposta del governo?

La reazione del governo è stata a dir poco offensiva. Invece di rispondere alle richieste della popolazione, ha compiuto atti puramente simbolici, revocando un sussidio casa qui, sospendendo un viaggio all’estero là, congelando alcuni aumenti alle retribuzioni dei parlamentari. Cambiamenti che non toccano la sostanza: un sistema progettato per arricchire una piccola élite e chiedere sacrifici senza fine alla maggioranza. Lo Stato poi ha scelto la repressione invece del dialogo. La polizia ha risposto ai cori con gas lacrimogeni, agli striscioni coi manganelli e al dissenso con gli arresti. L’uccisione di Affan Kurniawan è la prova più evidente che lo Stato dà più valore alla propria capacità di controllo che alla vita dei suoi cittadini. Invece di assumersi le proprie responsabilità il presidente Prabowo definisce le proteste “impulso al tradimento o al terrorismo”. È il linguaggio dell’autoritarismo, un tentativo di mettere a tacere il popolo criminalizzando le richieste di giustizia. Ma una tale risposta mette a nudo la vacuità delle promesse del governo. Slogan vuoti e violenza della polizia non possono nascondere la verità: l’Indonesia appartiene al suo popolo, non a coloro che lo sfruttano e lo tradiscono.

Quali sono le principali richieste del movimento?

Sono richieste che nascono dall’esigenza di giustizia, rispetto e cambiamenti strutturali. I manifestanti non chiedono piccoli aggiustamenti, ma una revisione totale delle priorità del paese. Le richieste per titoli sono 1) Responsabilità: indagini indipendenti e giustizia per l’uccisione di Affan Kurniawan e delle altre vittime della brutalità della polizia e fine della violenza di Stato; 2) Basta coi privilegi dell’élite: abolizione permanente dei ricchi sussidi per l’alloggio, dei viaggi all’estero e di altri vantaggi che sono uno sfregio alle difficoltà dei cittadini comuni; 3) Dignità economica: fine dell’austerità e invece politiche che proteggano i lavoratori, stabilizzino i prezzi, garantiscano posti di lavoro e indirizzino le risorse pubbliche verso la popolazione invece che verso le élite o la crescita degli investimenti militari; 4) Integrità democratica: difesa delle libertà civili, no all’influenza dei militari nella vita civile, rafforzamento degli organi di controllo e tutela del diritto di protestare senza timore. Nel complesso non sono riforme marginali, ma richieste che puntano a una trasformazione della governance che metta le esigenze dei molti davanti ai privilegi dei pochi.

Come ha reagito la polizia? Hai assistito o subito episodi di violenza o uso eccessivo della forza?

La risposta della polizia è stata caratterizzata da violenza, intimidazioni e, sì, uso eccessivo della forza. Manifestazioni pacifiche sono state represse con gas lacrimogeni, idranti, pestaggi e arresti di massa. I manifestanti, tra cui studenti e fattorini, sono stati inseguiti per le strade della città, arrestati senza accuse precise e in molti casi brutalmente aggrediti. Molti hanno riportato ferite causate da lacrimogeni, proiettili di gomma e colpi di manganello. Non sono denunce isolate. Sui social centinaia di video mostrano agenti che picchiano manifestanti disarmati, sparano gas contro la folla e trascinano gli studenti nei cellulari. Ognuno è sia una prova che una testimonianza e alimenta l’indignazione pubblica. Non sono “misure di sicurezza”, è repressione. I cittadini chiedono rispetto, lo Stato risponde con la violenza.

Quali forme di organizzazione del movimento avete adottato? Come si mobilita la gente?

Il movimento ha preso forma attraverso reti solidali decentrate piuttosto che rigide gerarchie. Studenti, lavoratori, fattorini, artisti, influencer e cittadini comuni si coordinano, rendendo le proteste più difficili da reprimere. I campus universitari sono diventati vitali centri di mobilitazione, mentre sindacati e gruppi di lavoratori collegano le lotte sul posto di lavoro alle richieste più ampie del movimento. I driver che lavorano nelle consegne e i gig worker sono emersi come una forza potente sia sul campo che online. Influencer e personaggi pubblici amplificano e moltiplicano messaggi di protesta e live sui social e per lo Stato è sempre più arduo controllare la narrazione. I social sono uno dei più efficaci canali di auto-organizzazione. Hashtag come #IndonesiaGelap, #1312 e #ACAB si sono diffusi rapidamente, insieme a modelli e strumenti condivisi. Le immagini dei profili si sono trasformate nei colori del movimento – il rosa del coraggio e il verde dell’eroismo – creando unità anche attraverso le immagini e consentendo a chi non può andare in corteo di mostrare solidarietà online. Poi fuori dagli spazi virtuali le comunità locali forniscono cibo, alloggio, provviste, manifesti e canzoni, mentre le reti di base raccolgono fondi a sostegno di chi è in prima linea. La forza di questo movimento è proprio l’auto-organizzazione dal basso: ci si mobilita nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei quartieri e sui feed online, così che ogni spazio diventa un luogo di lotta e ogni persona un organizzatore.

In che modo queste proteste riflettono tensioni sociali più ampie o frustrazioni latenti nella società indonesiana?

Le proteste non sono un focolaio isolato, ma lo specchio di profonde fratture sociali. Riflettono anni di disuguaglianze, arroganza del potere ed erosione dei vincoli fiduciari tra popolo e Stato. Al centro c’è il divario tra élite e cittadini comuni. I parlamentari godono di generosi sussidi, mentre milioni di persone faticano a pagarsi cibo, affitto e istruzione. Gli effetti dell’austerità ricadono sulle scuole e sui servizi pubblici, mentre il denaro fluisce liberamente per garantire privilegi politici e investimenti militari. Il sistema chiede sacrifici a molti perché pochi possano prosperare. La rabbia è anche generazionale. Gli studenti si scontrano con l’aumento delle tasse universitarie e la diminuzione delle opportunità; i lavoratori subiscono licenziamenti, salari stagnanti e precarietà; i corrieri rischiano la vita a causa di una gig economy che offre solo precarietà. Per molti lottare è un modo per rivendicare rispetto e chiedere un futuro più equo. La brutalità della polizia ha messo ancor più in luce i riflessi autoritari dello Stato: gas lacrimogeni, arresti e uso di una forza letale invece del dialogo. Ciò rafforza i timori che la democrazia venga svuotata di significato, gli organi di controllo indeboliti e il dissenso crminalizzato. Insomma le proteste riflettono una società che non è più disposta a tollerare disuguaglianze e repressione. Ma più che un riflesso sono una scintilla di trasformazione. Ciò che vediamo non è solo resistenza alle politiche di oggi, ma il primo passo di una lotta più ampia per la giustizia, la dignità e la democrazia.

Quale risultato speri che abbiano queste proteste e quale impatto pensi che potrebbero avere sul futuro dell’Indonesia?

Le proteste travalicano il tema dei privilegi o dell’austerità: puntano a giustizia, rispetto e cambiamento sistemico. Speriamo che costringano lo Stato ad assumersi la responsabilità delle sue violenze, a por fine all’arroganza dell’élite e a mettere i bisogni della popolazione al di sopra delle opportunità politice e della militarizzazione della società. Inoltre incarnano la speranza di un vero cambiamento economico e sociale, di bilanci che diano priorità a scuola, sanità, lavoro e salari invece che alla spesa militare o al benessere di pochi. Vogliamo una società in cui i giovani abbiano un futuro per cui val la pena di lottare e una democrazia vera, non vuota, in cui il dissenso sia rispettato e le istituzioni siano al servizio del popolo invece di dominarlo. Più ancora speriamo che le manifestazioni risveglino le persone, così che non si lascino ingannare di nuovo dai politici alle prossime elezioni. Troppo spesso i voti vengono comprati con regali, promesse vuote o appelli cinici, di cui la società pagherà il prezzo per anni in termini di disuguaglianza e repressione. Dev’essere più di una protesta, dev’essere un risveglio politico. Ciò di cui l’Indonesia ha bisogno è un cambiamento strutturale, non riforme di facciata.

INDONESIA Intervista a un giovane attivista che ha partecipato alla recente ondata di proteste

Da febbraio l’Indonesia è scossa da un’ondata di proteste di massa, tra le più grandi dalla caduta di Suharto nel 1998. Innescate dall’emergere di ricche prebende concesse ai parlamentari e acuite dall’uccisione del driver Affan Kurniawan da parte della polizia durante una manifestazione, sono dilagate in una mobilitazione nazionale. Lavoratori, studenti, driver e comunità sono scese in piazza contro diseguaglianze, austerità, corruzione e repressione.

DIMEJI MACAULEY, Internationalist Standpoint, 9 settembre 2025

Vuoi presentarti?

Mi chiamo Mia Rosmiati e faccio parte del Sindacato dei lavoratori dei media e dell’industria creativa per la democrazia (SINDIKASI), dove lavoro nella divisione di advocacy politica del Comitato esecutivo nazionale.

Internet e i media stanno dando ampio spazio alle proteste di massa in Indonesia. Cosa ha innescato questa ondata di proteste?

Non è una fiammata improvvisa, ma il prodotto di anni di frustrazione. Mentre lavoratori, studenti, lavoratori delle consegne e famiglie sono soffocati dall’inflazione, dalla stagnazione dei salari e dai licenziamenti, il governo risponde con misure di austerità che privano i cittadini dei servizi di base. Intanto i parlamentari si arricchiscono concedendosi generose prebende come indennità alloggio da decine di milioni di rupie al mese. Questa grottesca ostentazione di privilegi, che stride a confronto con le difficoltà quotidiane di chi riesce a malapena a pagarsi cibo e affitto, è la scintilla che ha infiammato le strade. Il rogo si è ulteriormente propagato dopo l’uccisione di Affan Kurniawan, un fattorino schiacciato dalla macchina della violenza di Stato. La sua morte riflette una profonda ingiustizia sociale e ha trasformato la rabbia in solidarietà. Il suo nome oggi è scritto sugli striscioni, gridato nei cortei e ripetuto online come simbolo di resistenza. Ciò che all’inizio era un’espressione di malcontento oggi è un movimento popolare: gli studenti marciano insieme ai lavoratori, le voci delle città si uniscono a quelle che arrivano dalle campagne, sia i lavoratori delle consegne che i contadini rifiutano di essere messi a tacere. Per noi di SINDIKASI è più di una protesta: è una lotta per la dignità.

Qual è stata la risposta del governo?

La reazione del governo è stata a dir poco offensiva. Invece di rispondere alle richieste della popolazione, ha compiuto atti puramente simbolici, revocando un sussidio casa qui, sospendendo un viaggio all’estero là, congelando alcuni aumenti alle retribuzioni dei parlamentari. Cambiamenti che non toccano la sostanza: un sistema progettato per arricchire una piccola élite e chiedere sacrifici senza fine alla maggioranza. Lo Stato poi ha scelto la repressione invece del dialogo. La polizia ha risposto ai cori con gas lacrimogeni, agli striscioni coi manganelli e al dissenso con gli arresti. L’uccisione di Affan Kurniawan è la prova più evidente che lo Stato dà più valore alla propria capacità di controllo che alla vita dei suoi cittadini. Invece di assumersi le proprie responsabilità il presidente Prabowo definisce le proteste “impulso al tradimento o al terrorismo”. È il linguaggio dell’autoritarismo, un tentativo di mettere a tacere il popolo criminalizzando le richieste di giustizia. Ma una tale risposta mette a nudo la vacuità delle promesse del governo. Slogan vuoti e violenza della polizia non possono nascondere la verità: l’Indonesia appartiene al suo popolo, non a coloro che lo sfruttano e lo tradiscono.

Quali sono le principali richieste del movimento?

Sono richieste che nascono dall’esigenza di giustizia, rispetto e cambiamenti strutturali. I manifestanti non chiedono piccoli aggiustamenti, ma una revisione totale delle priorità del paese. Le richieste per titoli sono 1) Responsabilità: indagini indipendenti e giustizia per l’uccisione di Affan Kurniawan e delle altre vittime della brutalità della polizia e fine della violenza di Stato; 2) Basta coi privilegi dell’élite: abolizione permanente dei ricchi sussidi per l’alloggio, dei viaggi all’estero e di altri vantaggi che sono uno sfregio alle difficoltà dei cittadini comuni; 3) Dignità economica: fine dell’austerità e invece politiche che proteggano i lavoratori, stabilizzino i prezzi, garantiscano posti di lavoro e indirizzino le risorse pubbliche verso la popolazione invece che verso le élite o la crescita degli investimenti militari; 4) Integrità democratica: difesa delle libertà civili, no all’influenza dei militari nella vita civile, rafforzamento degli organi di controllo e tutela del diritto di protestare senza timore. Nel complesso non sono riforme marginali, ma richieste che puntano a una trasformazione della governance che metta le esigenze dei molti davanti ai privilegi dei pochi.

Come ha reagito la polizia? Hai assistito o subito episodi di violenza o uso eccessivo della forza?

La risposta della polizia è stata caratterizzata da violenza, intimidazioni e, sì, uso eccessivo della forza. Manifestazioni pacifiche sono state represse con gas lacrimogeni, idranti, pestaggi e arresti di massa. I manifestanti, tra cui studenti e fattorini, sono stati inseguiti per le strade della città, arrestati senza accuse precise e in molti casi brutalmente aggrediti. Molti hanno riportato ferite causate da lacrimogeni, proiettili di gomma e colpi di manganello. Non sono denunce isolate. Sui social centinaia di video mostrano agenti che picchiano manifestanti disarmati, sparano gas contro la folla e trascinano gli studenti nei cellulari. Ognuno è sia una prova che una testimonianza e alimenta l’indignazione pubblica. Non sono “misure di sicurezza”, è repressione. I cittadini chiedono rispetto, lo Stato risponde con la violenza.

Quali forme di organizzazione del movimento avete adottato? Come si mobilita la gente?

Il movimento ha preso forma attraverso reti solidali decentrate piuttosto che rigide gerarchie. Studenti, lavoratori, fattorini, artisti, influencer e cittadini comuni si coordinano, rendendo le proteste più difficili da reprimere. I campus universitari sono diventati vitali centri di mobilitazione, mentre sindacati e gruppi di lavoratori collegano le lotte sul posto di lavoro alle richieste più ampie del movimento. I driver che lavorano nelle consegne e i gig worker sono emersi come una forza potente sia sul campo che online. Influencer e personaggi pubblici amplificano e moltiplicano messaggi di protesta e live sui social e per lo Stato è sempre più arduo controllare la narrazione. I social sono uno dei più efficaci canali di auto-organizzazione. Hashtag come #IndonesiaGelap, #1312 e #ACAB si sono diffusi rapidamente, insieme a modelli e strumenti condivisi. Le immagini dei profili si sono trasformate nei colori del movimento – il rosa del coraggio e il verde dell’eroismo – creando unità anche attraverso le immagini e consentendo a chi non può andare in corteo di mostrare solidarietà online. Poi fuori dagli spazi virtuali le comunità locali forniscono cibo, alloggio, provviste, manifesti e canzoni, mentre le reti di base raccolgono fondi a sostegno di chi è in prima linea. La forza di questo movimento è proprio l’auto-organizzazione dal basso: ci si mobilita nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei quartieri e sui feed online, così che ogni spazio diventa un luogo di lotta e ogni persona un organizzatore.

In che modo queste proteste riflettono tensioni sociali più ampie o frustrazioni latenti nella società indonesiana?

Le proteste non sono un focolaio isolato, ma lo specchio di profonde fratture sociali. Riflettono anni di disuguaglianze, arroganza del potere ed erosione dei vincoli fiduciari tra popolo e Stato. Al centro c’è il divario tra élite e cittadini comuni. I parlamentari godono di generosi sussidi, mentre milioni di persone faticano a pagarsi cibo, affitto e istruzione. Gli effetti dell’austerità ricadono sulle scuole e sui servizi pubblici, mentre il denaro fluisce liberamente per garantire privilegi politici e investimenti militari. Il sistema chiede sacrifici a molti perché pochi possano prosperare. La rabbia è anche generazionale. Gli studenti si scontrano con l’aumento delle tasse universitarie e la diminuzione delle opportunità; i lavoratori subiscono licenziamenti, salari stagnanti e precarietà; i corrieri rischiano la vita a causa di una gig economy che offre solo precarietà. Per molti lottare è un modo per rivendicare rispetto e chiedere un futuro più equo. La brutalità della polizia ha messo ancor più in luce i riflessi autoritari dello Stato: gas lacrimogeni, arresti e uso di una forza letale invece del dialogo. Ciò rafforza i timori che la democrazia venga svuotata di significato, gli organi di controllo indeboliti e il dissenso crminalizzato. Insomma le proteste riflettono una società che non è più disposta a tollerare disuguaglianze e repressione. Ma più che un riflesso sono una scintilla di trasformazione. Ciò che vediamo non è solo resistenza alle politiche di oggi, ma il primo passo di una lotta più ampia per la giustizia, la dignità e la democrazia.

Quale risultato speri che abbiano queste proteste e quale impatto pensi che potrebbero avere sul futuro dell’Indonesia?

Le proteste travalicano il tema dei privilegi o dell’austerità: puntano a giustizia, rispetto e cambiamento sistemico. Speriamo che costringano lo Stato ad assumersi la responsabilità delle sue violenze, a por fine all’arroganza dell’élite e a mettere i bisogni della popolazione al di sopra delle opportunità politice e della militarizzazione della società. Inoltre incarnano la speranza di un vero cambiamento economico e sociale, di bilanci che diano priorità a scuola, sanità, lavoro e salari invece che alla spesa militare o al benessere di pochi. Vogliamo una società in cui i giovani abbiano un futuro per cui val la pena di lottare e una democrazia vera, non vuota, in cui il dissenso sia rispettato e le istituzioni siano al servizio del popolo invece di dominarlo. Più ancora speriamo che le manifestazioni risveglino le persone, così che non si lascino ingannare di nuovo dai politici alle prossime elezioni. Troppo spesso i voti vengono comprati con regali, promesse vuote o appelli cinici, di cui la società pagherà il prezzo per anni in termini di disuguaglianza e repressione. Dev’essere più di una protesta, dev’essere un risveglio politico. Ciò di cui l’Indonesia ha bisogno è un cambiamento strutturale, non riforme di facciata.

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